Tratto da: Le Grandi Profezie  Autore Franco Cuomo

Newton & Compton Editori

 

L'Apocalisse di Giovanni  Parte seconda

 

Duecento milioni di mostruosi cavalieri

 

L’ira di Dio, una volta sciolto il settimo sigillo, è scandita dalle trombe di sette angeli.

Al primo squillo si riversa sulla terra «una tempesta di grandine e di fuoco amalgamati nel sangue»: brucia un terzo della terra, un terzo degli alberi è carbonizzato e tutta l’erba verde inaridisce.

Al secondo squillo precipita in mare «una massa ardente simile a una montagna infuocata": diventa sangue un terzo del mare, muore un terzo delle creature marine, scompare un terzo delle navi.

Al terzo squillo cade dal cielo «una grande stella, ardente come una torcia», il cui nome è Assenzio, che in greco vuoi dire amarezza:’ inquina e avvelena un terzo dei fiumi e delle sorgenti. In molti muoiono nel dissetarsi alle loro acque.

Al quarto squillo è colpito un terzo del sole, della luna e delle stelle, la cui luce scompare di un terzo.

Si compie con i primi quattro squilli la distruzione della natura, creata per la felicità degli uomini. Ma non è la fine del mondo: un terzo della terra e del cielo è risparmiato, per coloro che ancora sono degni di goderne. Viene ora per gli altri una pena più diretta.

Al quinto squillo una stella caduta dal cielo spalanca un pozzo che conduce al mondo sotterraneo: ne sale un fumo che oscura l’aria, e dal fumo si spandono nuvole di locuste «simili a cavalli bardati per la guerra». Hanno l’ordine di risparmiare l’erba e le piante, colpendo «solo le persone che non hanno il segno di Dio sulla fronte», ma senza ucciderle. Allo scopo di «farle soffrire per cinque mesi, come chi è stato punto da uno scorpione».

Scaturisce da questo atroce dettaglio un altro modello di future profezie. Come nel messaggio di Fatima e in altri oracoli apocalittici, gli uomini ancora in vita «cercheranno la morte ma non la troveranno, vorranno morire ma la morte fuggirà loro». E però rimarchevole che non si parli genericamente dei vivi — non di un’umanità irrimediabil­mente travolta da un castigo comune — ma di quelli che per le loro colpe non furono riconosciuti degni di essere segnati. Gli altri, riconoscibili dal segno, saranno risparmiati.

Mostruosa è la descrizione che Giovanni ci dà delle locuste: «Sulla loro testa c’erano come corone d’oro, e la loro faccia era come viso d’uomo. Avevano capelli lunghi come le donne e denti simili a quelli dei leoni. Avevano il torace somigliante a una corazza di ferro, e il fruscio delle loro ali era come il rombo dei carri di guerra che vanno all’assalto trascinati da molti cavalli... A capo delle locuste c’era un re, l’angelo del mondo sotterraneo, il cui nome ebraico è Abaddon, che vuoi dire sterminatore».

Al sesto squillo di tromba comincia il massacro vero e proprio. Vengono liberati «i quattro angeli incatenati presso il grande fiume Eufrate», il cui compito è l’annientamento di un terzo degli uomini.

­ Duecento milioni di cavalieri si riversano per il mondo ai loro ordini. Sono guerrieri mostruosi, come gli animali che montano.

«Cavalli e cavalieri mi apparvero rivestiti di corazze, alcune rosse come il fuoco, altre azzurre come lo zaffiro, altre

gialle come lo zolfo. I cavalli avevano teste che parevano di leoni; e fuoco, fumo e zolfo uscivano dalla loro bocca. Un terzo degli uomini fu ucciso da questi tre flagelli... Il potere dei cavalli stava nella bocca, e anche nella coda: infatti le loro code erano come serpenti, che ferivano gli uomini nella testa...».

Non basta tutto questo a redimere i sopravvissuti, che persistono nell’idolatria e nel delitto.

«Non abbandonarono gli idoli fatti con le loro mani e non smisero di inginocchiarsi dinanzi ai demoni e alle statue d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno, che non sono in grado di vedere, di udire e di camminare. Non rinunziarono neppure ai loro delitti, alla magia, alla prostituzione e ai furti».

C’è una pausa tra sesto e settimo squillo, perché Giovanni possa essere ancora edotto su ciò che deve fare. Apprende dal rombo di sette tuoni nuovi segreti. Sta per prenderne nota, ma viene fermato da una voce che intima: «No, non scrivere ciò che i sette tuoni hanno detto, perché deve rimanere segreto».

Riceve poi da un angelo un libro da «divorare». Lo fa senza metafora, masticandolo e deglutendolo, pur essendo stato avvertito: «Sarà amaro per il tuo stomaco, anche se in bocca ti sarà dolce come il miele».

Si capisce che in tal modo il profeta si nutre della parola di Dio, cibo che all’infinita dolcezza della sua essenza aggiunge l’amarezza di certe crudeli verità del messaggio: il castigo, le sciagure da compiersi, la rigenerazione attraverso il dolore.

Solo dopo avere divorato il libro Giovanni riceve un’ulteriore sollecitazione divina: «Devi profetizzare ancora su molti popoli, nazioni, lingue e regni». Viene quindi incaricato di misurare con una canna il santuario di Dio e di contare le persone in adorazione al suo interno. L’esterno no, non deve misurarlo: è stato lasciato ai nemici di Dio, che «per quarantadue mesi calpesteranno Gerusalemme, la città santa».

All’opera dei nemici, però, si contrapporrà quella di «due testimoni vestiti di sacco», indicati anche come «due olivi» e «due candelabri». Potrebbe trattarsi di Pietro e Paolo. Sono comunque apostoli che subiranno a loro volta il martirio, come l’Agnello.

«I loro cadaveri rimarranno esposti nelle piazze della grande città, là dove il loro Signore fu crocifisso, chiamata simbolicamente Sodoma ed Egitto. Per tre giorni e mezzo gente di ogni popolo e razza, lingua e nazione, starà a guardare i loro cadaveri e non li lascerà seppellire, e gli abitanti della terra faranno festa scambiandosi regali, rallegrandosi della morte dei due testimoni, perché erano stati un tormento per tutti gli abitanti della terra».

Ma i due testimoni risorgeranno (l’allusione al loro abito di sacco ha fatto anche ipotizzare che l’evangelista potesse

riferirsi all'opera di apostolato degli ordini mendicanti, nei quali andrà risorgendo l’originario spirito della predicazione evangelica) e saliranno al cielo «mentre i loro nemici staranno a guardare». Settemila di essi morranno nello stesso istante, per un grande terremoto che distruggerà un decimo della città.

 

 

Michele contro il drago: cronaca di una guerra in cielo

 

Il settimo squillo è accompagnato da voci che dal cielo inneggiano alla venuta del regno di Dio e alla «resa dei conti».

«E venuto il momento di giudicare i morti», dicono, «e di ricompensare i profeti tuoi servitori, e tutti coloro che ti appartengono e rispettano il tuo nome, piccoli e grandi; e di annientare tutti quelli che corrompono la terra».

Si spalanca tra le nubi il tempio di Dio e compare, visibile a occhio umano, l’arca dell’alleanza. Intorno si scatenano lampi, tuoni, una tempesta di grandine e un terremoto.

Segue all’apertura del tempio «un segno grandioso». Appare una donna vestita di sole che preconizza nell’aspetto la moderna iconografia mariana: è coronata di dodici stelle e ha sotto i piedi la luna. Partorisce un bambino destinato a «governare tutte le nazioni con un bastone di ferro». Un drago infernale vorrebbe divorano — è un animale orrendo, rosso come il fuoco, enorme, con sette teste e dieci corna — ma il piccolo è portato in salvo, presso il trono di Dio.

«Poi scoppiò una guerra in cielo: da una parte Michele e i suoi angeli, dall’altra il drago e i suoi angeli. Ma questi furono sconfitti e non ci fu più posto per loro nel cielo, e il drago fu scaraventato fuori.

Il grande drago, cioè il serpente antico, che si chiama “Diavolo” e “Satana”, ed è il seduttore del mondo intero, fu gettato sulla terra, e anche i suoi angeli furono gettati giù».

Precipitato nel mondo, il serpente perseguita la donna celeste, cioè la Chiesa effigiata come una Madonna, che si sottrae volando via con ali di aquila. E raggiunta dopo tre anni e mezzo nel deserto, dove si è rifugiata. Il drago le vomita contro una fiumana d’acqua, ma viene in suo soccorso la terra, aprendosi alla piena e inghiottendola.

Il drago si scaglia allora contro la progenie della donna, cioè la comunità dei fedeli. Non è solo nella sua furia persecutoria. Un altro mostro gli si affianca.

«Vidi allora una bestia che saliva dal mare», e qui Giovanni fornisce una delle più emblematiche descrizioni del potere rivolto alla realizzazione del male, fonte di una letteratura che nei suoi simboli ha individuato precisi riferimenti a mostri politici d’ogni tempo, come l’Impero romano e il nazismo. «Aveva sette teste e dieci corna. Su ogni corno portava un diadema, e su ogni testa era scritto un nome che era una bestemmia. Il mostro era simile a una pantera. Aveva zampe come quelle di un orso, e una bocca come la bocca di un leone. Il drago gli affidò il suo potere, il suo trono e una grande autorità... Allora tutta la terra fu presa da grande meraviglia e ubbidì al mostro... AI mostro fu concesso di dire parole arroganti e di insultare Dio, ed ebbe il potere di farlo per quarantadue mesi... Gli fu permes­so di fare guerra contro quelli che appartengono al Signore e di vincerli; gli fu dato potere sopra ogni razza, popolo, lingua o nazione...». Se questa bestia raffigura il male nella sua fattispecie istituzionale, cioè l’adesione dei governanti al progetto di Satana, una seconda bestia d’aspetto più mite rappresenta l’uomo che si pone al suo servizio. Non ha attributi terrificanti ma semplici corna d’agnello, e si dedica con spirito dialettico alla seduzione delle anime. E molto più temibile dell’altra, poiché esercita la sua persuasione sottile attraverso miracoli e artifici che le consentono d’imporre le più aberranti idolatrie. E ravvisabile nel suo raggiro l’intento di convertire al demonio l’umanità, coronato ai nostri giorni dal proliferare di culti e sette sata­niche.

«Vidi un’altra bestia che saliva su dalla terra. Aveva due corna come quelle di un agnello, e una voce come quella di un drago... Fa grandi miracoli: fa perfino scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli occhi della gente. Con i miracoli che ha il potere di fare inganna gli abitanti della terra, ordinando loro di fare una statua al mostro... La bestia ebbe il potere di dare vita alla statua del mostro perché potesse parlare e fare uccidere tutti quelli che non l’adoravano...».

È l’anticristo, che per rendersi speculare al suo nemico si veste a propria volta da agnello. Insieme al drago (Satana) e all’altra bestia (la chiesa di Satana) costituisce una trinità diabolica, nella quale ricopre il ruolo di messia. Segna con un marchio i propri fedeli e perseguita gli altri. Chi non ha impresso il suo segno non ha possi­bilità di sopravvivenza nella società da lui controllata: non può svolgere alcuna attività, non può commerciare, non può comprare né vendere. Come un cristiano nell’Impero romano o in quello sovietico; come un uomo di cuore in una società senza cuore, nella quale sia prevalso il feticcio del denaro.

Sceglie per marchio «un numero che corrisponde a un nome d’uo­mo»: il 666, reso attuale dall’uso ricorrente che ne hanno fatto in questo secolo i satanisti di ogni tendenza, senza però risolverne l’enigma.

Il numero, secondo Giovanni, conduce all’identità di una persona. Per individuarla «ci vuole saggezza».

Non è poi così difficile. Dice l’evangelista: «Chi è intelligente calcoli...».

 

Nuove piaghe per non dimenticare

 

Al segno della bestia si contrappone quello dei centoquarantaquattromila giusti riscattati da Dio. Sono riuniti sul monte Sion accanto all’Agnello. Intorno si diffonde «un suono forte, come il fragore dell'oceano e il rombo del tuono». Sopraggiungono sull’eco di queste note che solo i giusti possono intendere tre angeli.

Annunciano l’ora del giudizio finale, la punizione degli empi e la caduta della grande Babilonia, nella quale è ravvisabile Roma, la città che «aveva fatto bere a tutti i popoli il vino inebriante della sua prostituzione».

Inizia subito dopo la mietitura sulla terra. Angeli di giustizia falciano i grappoli della sua vigna e li gettano nel grande tino per la pigiatura «che rappresenta il terribile castigo di Dio».

Al termine «il sangue sgorgato dal tino fu tanto che arrivò all’altezza della bocca dei cavalli fino a quasi trecento chilometri di distanza».

Alla visione orrenda se ne sovrappone una sublime. Al di là di un mare di cristallo e di fuoco tutti coloro che hanno vinto il mostro cantano le lodi del Signore accompagnandosi con arpe da lui stesso ricevute.

 

Grandi e meravigliose

sono le tue opere

Signore, Dio dell’universo...

 

La battaglia potrebbe considerarsi conclusa, ma ancora sette flagelli devono abbattersi sull’umanità. Servono, in termini simbolici, per stabilire una continuità con le grandi profezie del passato: Giovanni, nell’evocarli, ripropone il tema biblico delle sette piaghe di Egitto. Perché lo fa? Per rammentare che tali calamità non rappresentano una memoria ormai sepolta nel tempo, ma una costante della storia, destinata a produrre i suoi effetti ogniqualvolta l’uomo, sostituendosi a Dio, sovverte la vita e l’ordine naturale delle cose intorno a sé.

Il fatto che le piaghe provengano da Dio — e che siano i suoi angeli a distribuirle nel mondo — non significa che ne sia lui la causa. Indica semplicemente l’inevitabilità degli effetti (prevedibili, nel loro ripetersi) che qualsiasi processo di distruzione comporta.

Continua…..