Tratto da: Le Grandi Profezie  Autore Franco Cuomo

Newton & Compton Editori

 

Un abate «di spirito profetico dotato»

 

Fino dai primi secoli del cristianesimo teologi e interpreti delle Scritture si sforzarono di capire che cosa significasse quel termine di mille anni che Giovanni nell’Apocalisse indicava come tempo della prigionia di Satana (20, 2-3), e cosa sarebbe accaduto al suo scadere (20, 7-10). Prevalse tra le diverse interpretazioni l’idea che quei mille anni rappresentassero il limite estremo della tolleranza divina alle malefatte degli uomini, oltre il quale non vi sarebbe più stata miseri­cordia per i peccatori.

Se ne dedusse che la liberazione dell’antico nemico avrebbe signifi­cato non soltanto l’inizio dello scontro definitivo tra le forze del bene e quelle del male, ma il giudizio universale. E questo, nell’immagina­rio religioso dell’epoca, non poteva che significare la fine del mondo.

 

 

La disputa sul “millennio”

 

La prospettiva era tremenda solo in apparenza, dato che alla cata­strofe sarebbe seguito l’avvento del regno di Dio, destinato a durare anch’esso mille anni. Era questo il senso profondo della promessa dalla quale sarebbero nate le teorie medievali millenariste, lacerate tra gioia e disperazione, ansia e terrore. Si temeva la fine ma si atten­deva con indicibile speranza la rinascita. Una felicità millenaria era nei piani del Signore. Si capisce che per potervi accedere si dovevano superare delle prove.

Il primo a formulare esplicitamente questa ipotesi fu il vescovo Papia di Girapoli intorno al 130, a meno di cent’anni dunque dalla crocifissione del Cristo e di quaranta dalla stesura dell’Apocalisse, nei suoi cinque libri di Esegesi della parola del Signore. Sosteneva Papia che con la fine del mondo il cristianesimo sarebbe definitiva­mente trionfato sulla morte: avrebbe avuto inizio un millennio di bea­titudine piena e la terra sarebbe stata trasfigurata dai doni del Signore.

Dissensi vi furono su questa interpretazione materialistica del regno di Dio, alla quale si contrapposero forme di gnosticismo cristiano, tendenti a leggere il medesimo messaggio in termini simbolici, quale annuncio di un rinnovamento interiore dell’uomo.

Giudizi contrastanti furono espressi nei confronti di Papia dai mae­stri della prima cristianità. Eusebio di Cesarea, considerato “il padre della storia ecclesiastica”, lo liquidò sbrigativamente come individuo di corta intelligenza1. Dello stesso avviso fu sant’Agostino, orientato verso una lettura allegorica dell’Apocalisse, ben lontana dalle pro­messe materiali di Papia.

Altri padri della Chiesa, però, si schierarono dalla parte di quest’ul­timo, riconoscendo che nella sua Esegesi risuonava l’eco dell’inse­gnamento evangelico, amorosamente filtrato attraverso la testimo­nianza degli anziani. Primeggiarono in tal senso san Giustino e gli apologisti2 Tertulliano, Melitone di Sardi e Teofilo di Antiochia.

Un ruolo decisivo nell’affermazione di questo nascente millenari­smo lo ebbe il leader della comunità asiatica trasmigrata a Lione, Ireneo, vescovo di quella città e già discepolo di Papia, divulgatore appassionato dei suoi scritti. E per quanto Papia sia stato il primo a parlarne, è Ireneo ad essere considerato il reale padre storico del pen­siero millenarista, detto anche chiliasta, dal greco chìlioi, che signifi­ca mille.

La disputa investì l’autenticità stessa dell’Apocalisse di Giovanni, sulla quale espresse riserve anche Eusebio, dando spazio nella sua Storia ecclesiastica all’opinione di Dionigi di Alessandria, detto il Grande, che la giudicava opera di stile troppo astruso e incomprensi­bile per potersi attribuire al quarto evangelista.3 Si giunse così a sostenere che vi fossero due Giovanni, e che la confusione fosse deri­vata dall’esistenza delle tombe di entrambi a Efeso. Ma il nodo cen­trale della polemica fu la contrapposizione tra quanti ritennero di poter interpretare il messaggio apocalittico come qualcosa destinato a realizzarsi «qui e ora», in maniera tangibile, e coloro che invece si sforzarono di leggerlo in una chiave metaforica.

 

 

Eretici e santi

 

Fu questo il prologo di una lacerante diversità che, dopo essersi pro­tratta per tutto il medioevo all’interno della comunità cristiana, con forti contraccolpi nei secoli successivi, soprattutto all’epoca della riforma, riaffiora oggi tra quanti si aspettano il compimento di anti­che profezie allo scadere del millennio, guardando agli eventi futuri con l’animo condizionato dalle più svariate suggestioni.

Si trattò in pratica di un contrasto ideologico, poiché l’avvento reale di un nuovo ordine — e la prospettiva che potesse protrarsi mille anni — aveva implicazioni rivoluzionarie, sconvolgenti sia per i detentori del potere religioso che di quello temporale. Vi si opposero perciò tanto i regnanti che i pontefici, osteggiando qualunque illusione sulla realizzazione di quella che i devoti chiamavano la Gerusalemme Celeste.

Fecero un uso rivoluzionario del millenarismo gli hussiti in Boemia e gli anabattisti in Germania. I primi fusero volontà d’indipendenza nazionale e spirito di riforma religiosa, ribellandosi tanto al papa che all’imperatore. I secondi fondarono a Mùnster il «regno della Nuova Gerusalemme». Furono perseguitati e sterminati in massa, gli uni e gli altri, con i propri leader.4 La loro visione del mondo sopravvive tuttora nei movimenti protestanti dei mormoni, degli avventisti, dei battisti e dei pietisti.

Sensibili al richiamo millenarista furono anche, in larga misura, mistici e veggenti di fede cattolica. Le loro profezie ebbero un’in­fluenza rilevante sulle predicazioni e le digressioni della teologia medievale. Ve ne furono di ogni genere. Sentenze di tono oracolare sui destini del mondo furono pronunciate da grandi santi, come Francesco d’Assisi e Brigida di Uppsala, Margherita da Cortona e Caterina da Siena. In molti casi, tuttavia, il miraggio chiliasta pro­vocò fenomeni d’integralismo religioso giudicati eretici dalla Chiesa.

Ciò accadde soprattutto quando gli eccessi dei penitenti e l’intran­sigenza pauperista di certi predicatori parvero sul punto di compro­mettere gli equilibri sociali e, più che mai, l’unità religiosa. Spietata fu allora la reazione civile ed ecclesiastica, che si abbatté con parti­colare violenza sui monaci fuorusciti per zelo di povertà dall’ordine francescano (gli spirituali, detti anche fraticelli, irriducibilmente polemici nei confronti dei lussi pontifici) e da altre comunità mona­stiche.

Feroce fu in specie la persecuzione contro Gherardo Segarelli e la setta degli apostolici, chiamati poi dolciniani, quando subentrò al maestro (arso vivo nel 1296) l’allievo Dolcino Tornielli. Anche que­st’ultimo — impropriamente chiamato “fra’ Dolcino”, poiché frate non era — finì al rogo (nel 1307) dopo avere resistito sul monte Zebello con la propria compagna Margherita e cinquemila seguaci all’assedio di un’armata mandatagli contro da papa Clemente V.

Dante Alighieri ha parole di rimprovero nei confronti di Dolcino (Inferno, XXVIII, 55-60) mentre manifesta un’ammirazione devota per Gioacchino da Fiore (Paradiso, XII, 136-138), fondatore anch’e­gli di una confraternita destinata a creare turbamento nel mondo cat­tolico per la sua forte vocazione escatologica, pur avendo, avuto a differenza degli altri l’approvazione di papa Celestino III. Ma la diversità tra Gioacchino e gli altri predicatori millenaristi non è tanto nel riconoscimento ottenuto dalla Chiesa — che certo gli sarebbe mancato se solo il pontefice avesse potuto prevedere gli effetti del suo pensiero, ispiratore tra l’altro della ribellione dei fraticelli —quanto nella complessità filosofica che il suo disegno profetico seppe esprimere.

E in questa prospettiva che trova giustificazione l’ammirato giudizio di Dante per «il calabrese abate Giovacchino, di spirito profetico dota­to».

 

 

La rivoluzione cristiana di Gioacchino da Fiore

 

Le profezie di Gioacchino da Fiore, monaco cistercense vissuto in Calabria tra il 1130 e il 1202, si articolano su di un sistema temporale che divide la storia dell’umanità in tre grandi ere, rispettivamente dominate da Dio Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. La prima doveva considerarsi ispirata dalle leggi dell’Antico Testamento, la seconda dallo spirito evangelico del Nuovo, la terza — di cui preco­nizzava l’avvento di lì a pochi decenni, nel 1260 — dalle leggi univer­sali dell’amore.

Avrebbe avuto inizio con l’avvento di quest’ultima un’epoca di libertà, dopo le “servitù” delle prime due. Ma ciò che storicamente creava mag­giori aspettative nel popolo cristiano — e inquietudine tra le autorità eccle­siastiche — era l’annuncio dell’imminente trionfo di una nuova Chiesa dello Spirito Santo in luogo di quella vincolata alle gerarchie tradizionali. Avrebbe caratterizzato questa fase di passaggio la nascita di un nuovo grande ordine religioso, destinato a svolgere un ruolo decisivo nella storia della Chiesa.

I francescani eretici del movimento spirituale si riconosceranno in questa profezia, ritenendosi chiamati ad affrontare «l’ultima e più ter­ribile prova dell’anticristo» in nome del rinnovamento in atto. Trove­ranno così un degno motivo per sopportare le terribili persecuzioni cui verranno sottoposti. Molti di questi fraticelli, prima di essere mandati al rogo, saranno inchiodati per la lingua alle porte delle chie­se, volendosi così sottolineare la gravità delle cose predicate.5

Al momento in cui Gioacchino trascrive le sue profezie in opere dalla forte connotazione simbolica, come il Commento all’Apocalisse e la Concordanza tra Vecchio e Nuovo Testamento, l’avvicendamento sta per compiersi sulla base di un preciso conteggio. Gioacchino affer­ma che la prima epoca si è protratta dal tempo di Abramo a quello di Cristo, per un arco di quarantadue generazioni, stando alla genealogia biblica. Altre quarantadue ne devono dunque passare perché si compia la seconda. Calcolando allora un ragionevole tempo di trent’anni per ciascuna generazione, stabilisce che la data fatidica debba scattare nel 1260. E poiché formula questi suoi vaticini sul finire del Duecento è certo che manchino due sole generazioni (sessant’anni, per l’appunto) al compimento del suo disegno escatologico.

E sorretto nelle sue convinzioni dal significato che di volta in volta attribuisce ai grandi simboli apocalittici. Le quarantadue generazioni corrispondono ai mesi di vita della bestia, le locuste sono gli eretici patarini, i sette angeli del giudizio rappresentano altrettanti momenti storici. Milleduecentosessanta sono infine i giorni trascorsi nel deser­to dalla donna minacciata dal dragone dopo avere partorito il fanciul­lo che «dovrà governare tutte le nazioni con il bastone di ferro» (Apocalisse 12, 6). Ma dietro questo velo ermetico il suo discorso è semplice, e suscita un’appassionata attesa tra i fedeli, coinvolgendo i circoli intellettuali più evoluti della cristianità medievale.

Per il monaco cistercense la rivoluzione cristiana non si è realizzata come avrebbe dovuto. Non si è realizzata nella fase antecedente alla rivelazione di Gesù, né in quella successiva. Non si è realizzata nel­l’evento trionfale della creazione, gestito dal Padre, né nell’instaura­zione dell’ordine sociale proclamato dal Figlio. Dovrà dunque com­piersi, allo scadere del termine indicato, per intervento dello Spirito Santo, cioè di quella terza persona che per verità di fede procede dalle prime due. Non sarà però retaggio esclusivo di quest’ultima, ma dell’intera Trinità, coerentemente al dogma che sancisce l’unità delle tre figure; e che, se contraddetto, esporrebbe Gioacchino all’accusa di eresia.

Nelle visioni del profeta la nuova età esprime un ritorno all’origina­ria purezza dello stato edenico, infanzia dell’umanità: «Il primo periodo appartiene ai vecchi, il secondo ai giovani, il terzo ai fanciul­li... Nel primo si era dominati dal timore, nel secondo si riposa nella fede, nel terzo si arde di carità».

Un velo di poesia genuina caratterizza la descrizione di quanto è accaduto all’uomo e di quanto ancora sta per accadere: «Nel primo [periodo] rilucevano le stelle, nel secondo biancheggia l’aurora, nel terzo risplenderà il giorno. Il tempo del primo è l’inverno, del secon­do la primavera, del terzo l’estate. Nel primo fiorì l’ortica. nel secon­do la rosa, nel terzo il giglio...».

 

 

Dante, «fedeli d’amore» e rosacroce

Si capisce l’interesse manifestato da Dante per Gioacchino da Fiore se si considera che entrambi erano presumibilmente legati a cenacoli esoterici fortemente interessati a un progetto di rinnovamento univer­sale. In quanto monaco cistercense, Gioacchino aveva idealità e aspi­razioni contigue a quelle dell’ordine templare, che aveva ricevuto da san Bernardo di Chiaravalle la sua regola. Dante a sua volta, in quan­to fedele d’amore,6 era con ogni probabilità iniziato a una dottrina segreta che aveva molti punti di contatto con il templarismo. Significativo è inoltre che siano considerati entrambi — Gioacchino da Fiore per la sua visione escatologica, Dante per l’uso che fa nel Paradiso di simboli quali l’aquila della giustizia divina e la rosa dei beati — precursori del movimento rosacrociano.

Tracce delle visioni di Gioacchino sono riscontrabili, a distanza di quattro secoli, in alcune opere chiave della cultura dei rosacroce, quali la Fama fraternitatis (1614) e la Confessiofraternitatis (1615), attribuite al pastore luterano Valentin Andreae, animatore di una setta di Tubinga a indirizzo alchemico, poi fondatore di gruppi denominati “unioni cristiane”, d’ispirazione teosofica utopistica.

Veniva enunciato nella Fama il credo dell’ordine dei rosacroce, riconducibile all’affermazione che «da Dio si nasce, in Gesù si muore, nello Spirito Santo si risorge», riportata in una scritta (ex Deo nascimur, in Jesu morimur in Spiritum Sanctum reviviscimus) posta nel sepolcro immaginario del cavaliere Christian Rosenkreuzt, leg­gendario fondatore dell’ordine occulto della Rosacroce. La parte più significativa della Fama, sotto il profilo esoterico, riguardava il metaforico ritrovamento del sepolcro nel quale giaceva circondato da libri, specchi magici, geroglifici e altri simboli di sapienza arcaica, il suo corpo incorrotto e illuminato da una lampada eterna. Sovrastava appunto questo scenario ridondante di antichi emblemi la sunnomina­ta scritta, corrispondente nei suoi elementi essenziali al prospetto escatologico di Gioacchino da Fiore.

Elementi più specificamente apocalittici erano invece presenti nella Confessio fraternitatis, sintesi divulgativa della Fama. Di particolare interesse, in termini filosofici e religiosi, era poi il tentativo, da parte dell’enigmatico pastore Andreae, di considerare il «punto Omega» della storia come emanazione ed evoluzione del «punto Alfa» o «Archetipo degli archetipi», cioè Dio, da cui tutto proviene.

 

 

L’ossessione del conto alla rovescia

 

La sensazione provocata dalle profezie di Gioacchino da Fiore ben due secoli dopo il volgere fatidico dell’anno Mille dimostra quanto fossero ormai radicate le fobie millenariste nella coscienza occidenta­le. Non era bastato a rimuoverle il superamento di quella che tutti avevano ritenuto essere l’ora della fine del mondo.

Avevano alimentato la grande paura, con l’approssimarsi della data desunta dall’Apocalisse di Giovanni, le omelie spaventose di predica­tori che coglievano dovunque segnali dell’imminente catastrofe, enfatizzandone l’orrore agli occhi dell’atterrita popolazione. Agli eccessi visionari si erano poi sovrapposti eventi reali di portata tragi­ca, dei quali danno ampio riscontro le cronache del tempo: carestie, pestilenze, saccheggi e violenze d’ogni genere. Nascono in questo periodo leggende orribili, come quelle degli orchi che divorano i bambini, originata dalle atrocità commesse dagli ungari nelle loro scorrerie. Vichinghi e saraceni terrorizzano le genti della costa. Si diffondono malattie contagiose di tali proporzioni da decimare a più riprese la popolazione d’Europa. La fame induce in molte regioni gli uomini al cannibalismo, un costume alimentare che la memoria stori­ca d’Europa ha rimosso ma che ancora nel corso della prima crociata era praticato tra le file dei pezzenti in armi.

Fanno da contrappasso a tali orrori le opere di pietà e di espiazione. Pellegrini e penitenti percorrono le strade del mondo conosciuto, alcuni diretti verso i luoghi santi, altri senza meta, salmodiando lita­nie e flagellandosi. Vengono erette nuove chiese, cresce la popolazio­ne dei conventi, eredità e donazioni affluiscono con sempre maggiore frequenza e generosità nelle casse degli ordini religiosi, delle abba­zie, dei santuari. Senza uno scopo apparente, poiché perfino un con­cilio (a Trosby, nel 909) ribadisce che il mondo sta per finire.

Mai nella storia una profezia ebbe tale peso e influenza sui compor­tamenti umani quanto la rivelazione apocalittica nelle sue varie inter­pretazioni all’approssimarsi dell’anno Mille. La cronologia incerta e gli errori determinati da un computo approssimativo degli anni, spes­so rapportato a parametri profani come la nascita di un imperatore, l’avvento di una dinastia, la fondazione di una città, accrebbero la confusione determinata dal panico, facendo sì che il paventato appuntamento venisse a cadere in tempi e luoghi diversi, a seconda di quanto consentiva il livello di cultura storica e scientifica delle popo­lazioni coinvolte. E quando il Mille fu sicuramente passato, anziché tirare un sospiro di sollievo, teologi e devoti cominciarono a chieder­si in che cosa avessero sbagliato i loro calcoli e su quali basi avrebbe­ro dovuto elaborarne di nuovi per individuare il giorno, comunque inevitabile, del giudizio finale.

Si escogitarono così varianti sui conteggi fino allora effettuati, rispolverando il parere del venerabile Beda, il monaco inglese rino­mato per la sua vocazione enciclopedica,7 secondo il quale il millen­nio sarebbe dovuto decorrere non dalla nascita ma dalla morte di Cristo. Se ne dedusse che la fine del mondo sarebbe sopraggiunta nel 1033. Altre teorie furono elaborate successivamente, manipolando con la più bizzarra disinvoltura i numeri delle apocalissi e le date ritenute di particolare interesse religioso, mentre altri predicatori si davano da fare per mantenere viva la tensione dell’immaginario popolare, soprattutto allo scadere di ogni secolo.

In uno di questi momenti di trapasso si colloca l’attività divinatoria di Gioacchino da Fiore, che dei profeti millenaristi fu il più rappre­sentativo, anche grazie alla sua sorprendente capacità di prevedere avvenimenti ordinari, facilmente verificabili dalle masse, come la morte dell’imperatore Enrico VI e il decadimento del regno di Sicilia, geograficamente contiguo alla sua Calabria.

Va detto che, pur godendo in vita di alta considerazione presso il papa, che diede il suo riconoscimento alla congregazione da lui fon­data a Fiore nel 1196, Gioacchino entrò dopo la morte in odore di eresia. Ne pagarono le conseguenze i suoi discepoli, detti gioachi­miti, che furono perseguitati in diverse occasioni. Ma va pure rilevato a onor del vero che ciò accadde non tanto a causa del messaggio pro­fetico di Gioacchino quanto per gli eccessi polemici dei gioachimiti nei confronti di quella Chiesa ufficiale che avrebbe dovuto essere spazzata via dalla nuova Chiesa dello Spirito Santo.

Di tali eccessi — e delle persecuzioni conseguenti — furono tragici protagonisti, come si è visto, gli apostolici, i dolciniani e i fraticelli.

 

1 Nella Storia ecclesiastica, scritta tra il 310 e il 324, opera fondamentale per la conoscenza della Chiesa delle origini.

2 Così erano chiamati gli scrittori dei primi secoli, che invocavano una maggiore tolleranza dello Stato nei confronti della religione cristiana.

3 Nel trattato Sulle promesse, che si inserisce tra gli scritti polemici di Dionigi, discepolo di Origene, divenuto capo della scuola catechetica e vescovo di Alessandria nel 247. Oltre che contro il millenarismo, Dionigi si batté contro diverse scuole eretiche, venendo accusato a sua volta di eresia.


4 Jan Hus venne mandato al rogo nel 1415 dai vescovi riuniti a Costanza, davanti ai quali si era spontaneamente presentato con salvacondotto imperiale per discutere le sue tesi. Feroci furono le persecuzioni che reciprocamente si inflissero dopo di allora cattolici e hussiti, con particolare violenza sacrilega da parte di questi ultimi nei confronti delle chiese e delle imma­gini religiose. Thomas Mùntzer, già monaco agostiniano e poi predicatore luterano, fondò comunità cristiane tendenti ad affermare l’avvento di una teocrazia evangelica. Si alleò con gli anabattisti svizzeri e capeggiò una rivolta contadina in Turingia, al termine della quale (1525) venne catturato e ucciso dai principi tedeschi dopo atroci tormenti.


5 I fraticelli furono condannati in prima istanza nel 1317 (con la bolla Sancta Romana) e dichiarati eretici nel 1323 (Cum inter nonnullos). La persecuzione si protrasse per oltre un secolo. L’ultimo processo a loro carico è del 1467.


6 Fedeli d’amore erano i membri di una società segreta d’ispirazione ghibellina, le cui ragio­ni politiche s’intrecciavano con motivi filosofici e letterari.