Tratto da: Le Grandi Profezie  Autore Franco Cuomo

Newton & Compton Editori

 

La monaca di Dresda seconda e ultima parte

Angeli e veleni

V'è un fondo di razionalità nelle visioni della monaca di Dresda, che si esprime soprattutto attraverso informazioni particolareggiate su di un progresso tecnologico impensabile all'epoca, con ampi cenni all'uso di strumenti oggi alla portata di tutti, come il telefono, la televisione, la radio:

Volerà un giorno la voce, e gli uomini si parleranno oltre i mari e le montagne; voleranno le immagini, e gli uomini potranno vedersi oltre i mari e le montagne...

Ma c'è più disincanto che stupore o esaltazione in queste sue cronache dal futuro. Certe facoltà le appaiono inutili, in un certo senso, dato che non procurano la felicità. La televisione, afferma esplicitamente la monaca, anche se non sa di che si tratta, non è al servizio del bene:

Voleranno le immagini come gli angeli, ma non irradieranno la luce degli angeli.

A questa desolante valutazione del progresso si deve, in tutta chiarezza, la propensione della veggente a considerare il disastro ecologico - come molti altri suoi precursori, del resto - tra le maggiori cause dell'ecatombe cui l'uomo va incontro: «All'approssimarsi della fine tutto sarà un veleno perché l'uomo avrà decretato di uccidere l'uomo [...] Il ventre della terra diventerà putrido, e tutto quello ch'è in lei marcirà, ma gli uomini continueranno a mangiare le interiora del suo ventre e moriranno. La morte avrà il colore del ventre, ma gli uomini diranno che quello è il colore del tempo. La morte avrà l'odore del ventre, ma gli uomini diranno che quello è l'odore della natura...».

Sembra che la monaca, nell'avvertire le future generazioni del degrado cui va incontro la natura, voglia metterle in guardia contro le adulterazioni alimentari. Già oggi i nuovi cibi manipolati dall'uomo, inscatolati, chimicamente trattati, hanno assunto colori sconosciuti, odori insoliti, ma la pubblicità non fa che esaltarne la qualità "naturale", tentando appunto di dimostrare che quelli sono i colori e gli odori della natura.

Intanto «il ventre marcio [della natura] provocherà più morti di una guerra. Poi, quando tutto sarà marcio, quando tutto sarà morte, all'alba dell'età dello Spirito Santo [cioè adesso, all'alba del Duemila] l'enorme ventre verrà riempito di zolfo e purificato... I suoi veleni voleranno per l'aria, spandendo intorno la morte».

Dice la monaca di Dresda che l'uomo avrebbe impiegato 333 anni per avvelenare il pianeta e 666 per eliminare i veleni. Visto allora che nei primi anni del Duemila la terra dovrebbe avere raggiunto il massimo grado di invivibilità, se ne deduce che il processo venefico sarebbe dovuto cominciare verso il 1670, con un secolo di anticipo sulla rivoluzione industriale, in quella fase di passaggio dell'impresa tessile dall'artigianato alle grandi manifatture che nella storia dell'economia è detta protoindustriale.

Quanto ai 666 anni necessari per la bonifica del pianeta, rappresentano un evidente pretesto per richiamare l'attenzione sull'ineluttabilità della presenza diabolica, anche nei periodi di rigenerazione, ma stanno pure a indicare quanto sia più difficile ricostruire che distruggere. Tanto da richiedere il doppio del tempo.

Le acque mortali di Venezia

Desta particolare impressione in questa prospettiva di mortale degrado ambientale la previsione di quella che dovrebb'essere la morte di Venezia, soffocata da «acque vischiose e velenose». La monaca paragona l'inquinamento della laguna alla barbarica furia degli unni che devastarono nel 452 la maestosa città di Aquileia: «Aquileia fu distrutta da Attila [...] Venezia sarà distrutta dal nuovo Attila d'acciaio quando i secoli l'avranno resa putrida. Immense bocche di fuoco si leveranno verso il cielo vomitando veleni che cadranno sulle acque, tingendole del colore del sangue marcio...».

Non è difficile riconoscere nel moderno Attila d'acciaio i complessi industriali della vicina Marghera e nelle bocche protese con le loro lingue di fuoco verso il cielo le ciminiere delle fabbriche. È possibile inoltre, da un passo della profezia, tentare di dedurre quanto ancora rimarrebbe da vivere alla città lagunare: «Cinque volte l'ombra di Aquileia si proietterà su Venezia, e poi Venezia sarà Ninive e Ishtar, e a sua volta in rovina sprofonderà nel sepolcro di sangue marcio».

Che significa? Che bisogna moltiplicare per cinque, ad avviso degli esperti, la data della fine di Aquileia. Dopo di allora Venezia subirà la stessa sorte di Ninive con il suo tempio di Ishtar. Se l'ipotesi è corretta, l'anno del suo definitivo sprofondamento nell'Adriatico potrebbe essere il 2260.

Desta un certo allarme il fatto che la monaca abbia azzardato in quella medesima lettera altre scadenze sui destini di Venezia, rivelatesi poi fondate. Aveva tra l'altro scritto: «Passeranno dieci anni dalla mia morte [poi avvenuta nel 1706] e il leone perderà gli artigli»; e in effetti, tra il 1716 e il 1718, la Repubblica subì colpi, quali la perdita della Morea riconquistata dai turchi, che ne ridimensionarono definitivamente la potenza.

L'apocalisse in diretta

L'agonia di Venezia e la sua fine, delle quali si favoleggia da anni, rientrano tra le profezie della monaca di Dresda che investono più da vicino la realtà italiana contemporanea.

Di particolare interesse in tal senso è la previsione secondo la quale dovrebbe affiorare in Adriatico, non molto in là negli anni, una striscia di terra tra l'Italia e le coste dell'ex Jugoslavia o dell'Albania. Si tratterebbe di una sorta di cammino tra le acque, destinato a unire i due litorali.

Un'interpretazione per così dire realistica di questa profezia ha indotto certi esperti a considerare l'eventualità di un sisma, di tale potenza da far impallidire il ricordo dei terremoti di Messina e San Francisco messi insieme. Ma le parole della monaca possono leggersi in una valenza simbolica, che tenga conto di quanto è accaduto - e continua ad accadere, in crescendo - dopo la disintegrazione della federazione jugoslava e della repubblica popolare albanese. In questa luce il cammino tra le acque potrebbe essere una metafora del flusso migratorio attraverso il quale migliaia di disperati vanno riversandosi ormai da tempo, nella clandestinità e nel pericolo, sulle sponde italiane.

Non di una materiale striscia di terra si tratterebbe, dunque, ma di qualcosa che allo stesso modo determina un via vai diretto e incontrollabile tra territori resi lontani un tempo dal mare. Ad avvicinarli oggi fino a renderli comunicanti, se questa ipotesi di lettura è praticabile, sarebbe stato un trauma politico anziché geologico. Un terremoto, sì, ma istituzionale ed economico.

Un discorso analogo può farsi intorno all'eventualità, ventilata anch'essa dalla monaca, che il Tirreno debba trasformarsi in un lago. Anche qui si è pensato a uno sconvolgimento tellurico senza precedenti, di proporzioni realmente apocalittiche, nell'accezione comune - non iniziatica - del termine. E va bene, ma in una prospettiva altrettanto realistica, seppure metaforica, può dirsi che questo mare sia da considerarsi già un lago destinato alle manovre aeronavali della Nato, teatro di eventi misteriosi e trame oscure, della cui impenetrabilità fa fede l'insoluta tragedia di Ustica.

Al di là di questi scenari che si prestano a interpretazioni molteplici, l'Italia del Duemila è per la monaca di Dresda lo specchio di una società in crisi, forse al declino definitivo, reso ancora più drammatico dall'esistenza di vincoli talvolta oscuri tra potere religioso e potere civile, tra Cesare e Pietro, coinvolti in un abbraccio nebuloso, dagli ambigui contorni:

Fui condotta in sogno su di un colle, ai piedi del quale si stendeva la città benedetta, ma non riuscivo a distinguere che il Colosseo. Tutti i pilastri erano addobbati con bandiere rosse, fiumane di popolo vi accedevano dalle sessantadue porte, mentre dagli archi superiori piovevano monete d'oro, che una volta toccata terra si trasformavano in fiammelle di fuoco per poi spegnersi immediatamente. E il popolo lottava per impadronirsi di una moneta d'oro, scannandosi, ma non appena qualcuno riusciva a metterci le mani sopra si accorgeva di non avere nulla, poiché le mani stringevano solo aria. Il popolo continuava a entrare [...] e d'improvviso ci fu un gran turbamento. Archi e pilastri si misero a oscillare, poi a tremare, facendo cadere massi enormi sulla gente, tanto che più nessuno poteva entrare o uscire [...] Ho visto poi sopraggiungere una processione di cardinali e vescovi che, anziché pregare, litigavano tra loro. «Vogliono riportare la Chiesa a Gerusalemme», gridava qualcuno. «Hanno fatto un patto col diavolo», gridavano altri. Poi ci fu un grande fracasso, e si sollevò una nube di polvere...

Come in un'ordinaria trasmissione televisiva si assiste a una imponente manifestazione sindacale - o di partito, il che è lo stesso - rappresentata come una sorte di Pentecoste rossa, visto che al Colosseo si tengono per tradizione i riti della settimana santa. Ma non è il fuoco dello Spirito Santo, bensì una pioggia di monete d'oro, che si effonde sui fedeli della nuova religione; e tutti si affannano per impossessarsene, lasciandosi coinvolgere in uno sterile gioco a premi. I gettoni posti in palio sono però di valore tanto effimero da consumarsi come fuochi fatui sotto gli occhi dei contendenti. Segue a questa sgangherata competizione una specie di talk show  che imprigiona i partecipanti in un'arena le cui porte sono ostruite da macerie. Gli uomini del potere (ecclesiastico, in questo caso) danno un pietoso spettacolo di sé, accapigliandosi come bottegai lesi nei propri interessi. Un gran polverone coprirà infine le loro vergogne.

Si direbbe quasi che la monaca di Dresda, oltre a intuire l'enorme potere del mezzo televisivo, possa averne visionato attentamente i programmi. Con pena e con acume, e con impercettibile ironia.