PADRE ULDERICO PASQUALE MAGNI

 

VIAGGIO   verso il  Corpo di Luce

CON I PADRI ANTICHI

COL POETA DANTE ALIGHIERI

CON LA SCIENZA MODERNA

 

A tutti coloro che guardano

 all’ “OLTRE”

nel segno del Dolore

 perché sappiano coglierlo

come Mistero d'Amore.

 

“Veritas a quocumque dicatur

 a Spiritu Sancto est”.

S. Agostino

 

Un vecchio Prete alla vigilia di partire

per il Grande Incontro con Colui che ci ama

a teologi, a Vescovi, a Cardinali

pionieri della Nuova Stagione un’idea spunto

per un Nuovo Progetto Culturale in sintonia

con il Nuovo Millennio.

(P.  Magni)

 

CON DANTE IN VISITA NEL SECONDO REGNO

 

“La vita oltre la vita”, per coloro che accolgo­no con simpatia questo termine, non evoca più i timori e i tremori del passato. Tremori e timori propri di un paganesimo duro a morire. Un paga­nesimo capace di lasciar tracce, nonché oscuri vapori, persino su una “civiltà della vita”, com’è per sua natura la Civiltà Cristiana.

Non più timori, anzi caduta delle stesse perples­sità dei credenti, sino a ieri, tardi nell’indugio della così detta necromanzia: la ricerca dei morti nel regno dei vivi.

Indugio avvalorato = sia pure in opposizione = da una legge antica e ripetitiva; più attenta al momento negativo sottolineato da Mosé che non piuttosto al momento positivo offerto, come dice il Prologo di Giovanni, dalla Grazia del Cristo. La legge del timore, che giustifica la proibizione, funge spesso come palla al piede che sottrae il passaggio a un superiore livello.

Quale livello? Il livello teologico della “non esistenza dei morti” per l’Iddio, vivo e vero. Il livello cristologico proprio di Colui che disse: “Io sono la Resurrezione e la Vita”. Non lo disse assecondando una speranza proiettata nel futuro lontano. Lo disse al presente “Io sono”. Il pre­sente di quella esistenza totale che oggi vuoi essere nuovo tema dominante della cultura cristologica. E, ciò, in consonanza con la nuova stagio­ne culturale, nata dal superamento dei così detto “tempo assoluto” di Newtoniana memoria.

Con la nuova epistemologia = che vuoi essere filosofia della Natura e della Vita = il discorso sull’Aldilà assume un valore fondamentale.

Ci ricorda la parabola del “lievito” che trasfor­ma tutta la massa di farina. La fede, “anzi la piena convinzione” della “Vita oltre la vita” riporta in luce valori offuscati.

Ciò che di fosco lamentiamo, nella società attua­le, dipende in gran parte dall’oblio del “corpo tipo luce”.

È di questo “corpo” che qui parleremo, in com­pagnia del più grande poeta italiano. Poeta e teo­logo, nel senso di uomo = guida di balza in balza, di cielo in cielo, verso la perfezione, sino all’Empirèos”, il “fuoco del fuoco”. Verso la pie­nezza del Regno “che solo Amore e Luce ha per confine”.

Pensare ai nostri cari nell’ ‘‘Oltre’’ , in cammino verso la pienezza dell’essere, verso ciò che ci fa “conformi a Cristo”, come dice l’Apostolo, è pensare in termini non già di dolore, bensì in ter­mini di amore. Dolore ed amore, nella speranza cristiana, ci rendono partecipi attivi in quella comunione che si chiama “Comunione dei Santi”.

“OLTRE LA SOGLIA”

 

"e canterò di quel secondo regno

dove l’umano spirito si purga

e di salire al ciel diventa degno”

 

Purgazione per il Poeta ha significato di limpidità e, nei confronti dell’ombra, ha significato di luce. Luce più luce sino a quella perfezione suprema che l’Apostolo    dichiara        “inaccessibile”.

Inaccessibile all’Uomo, ma accessibile all’Uomo - Dio. Accessibile al Cristo che si fa Uomo per por­tare tutta la umanità alla pienezza.

Il “Purgatorio” di Dante, nella sua rappresenta­zione scalare, cioè rivolta verso l’alto, si svolge fra due estremi. L’estremo più basso confina quasi con la Terra. Così sulla “soglia” è dato incontrare colo­ro che, della Terra, conservano l’immagine viva. Non solo. Vi sono creature, vestite sì di luce; ma di una luce che ha valor di crepuscolo. Crepuscolo del tramonto, se ci si riferisce alla Terra. Crepuscolo d’alba se ci si riferisce al Cielo.

Nel “Primo Canto” Dante con Virgilio, suo spi­rito guida, viene a trovarsi in un’isoletta circondata dal mare ed elevata verso il Cielo. È di lì, dai piedi della Sacra Montagna, che inizia il cammino di ascesa. Prima che abbia inizio il cammino, nella piana antistante tutta coperta da un’erba leggera irrorata di rugiada sul primo mattino, lo spirito guida compie due operazioni purificatrici nei riguardi del Poeta. Accarezza le erbette e poi con le palme delle due mani accarezza il volto di Dante.

Gesto soave e tipicamente materno. Tutto intor­no si protendono verdi e sottili giunchi quasi in un gesto di offerta. Virgilio ne strappa uno con tale delicatezza che un altro all’improvviso ne spunta e si offre. Con l’umile giunco il poeta latino, mèmo­re di ciò che in terra significava l’alloro, di ciò che significava “incoronarsi di rose”, recinge il capo del poeta fiorentino in segno di umiltà. Umiltà, la virtù che donata ricresce.

Si passa di poi al “Secondo Canto”, ove il silen­zio della inviolata natura, si fa voce lievemente corale, mentre giunge dal mare, carica e veloce, la navicella guidata dall’Angelo. Tra la folla delle creature, volte verso l’alto, il poeta si accorge di una attenzione rispettosa e amorosa.

 

“Io vidi una di lor trarsi davante

per abbracciarmi, con sì grande affetto

che mosse me a far lo somigliante”

 

Un abbraccio si direbbe oggi “virtuale”: ripetuto tre volte, con crescente meraviglia, per la inespe­rienza del pellegrino terrestre, come Dante, in quel mondo che per noi si direbbe umbratile, se non fosse vero , visibile.

Il Poeta fa un passo avanti, tutto preso dalla meraviglia e dalla figura, unitamente alla luce visi­bile, nasce la dichiarazione d’amore: “Così com’io t’amai nel mortal corpo, così t’amo sciolta”.

Chi parla è l’amico di Dante, poeta e musico, Casella. E, questo primo incontro ai piedi della Sacra Montagna, con tutta la ricchezza dei senti­menti che il nostro cuore vuole immortali, ci offre più di un insegnamento, come diremo più avanti.

Ma intanto il mistero si affaccia all’anima del Poeta.

Si affaccia, mentre un dolce canto risuona quasi nostalgia del passato:

 

“Amor che nella mente mi ragiona”.

 

Se ieri era l’amore, la passione dominante negli anni della gioventù spensierata, oggi è la ricerca di una ragione del mistero della vita: nella vita oltre la vita. “Correte al monte” grida Catone il custo­de amante della libertà in assoluto: la sola libertà che, nella verità, fa finalmente liberi. “Correte” a liberarvi dalla pietra che vi grava sugli occhi; dalla pietra che vi impedisce di vedere Iddio, come il Sole, a mezzogiorno.

S’affretta Dante: ma intanto il mistero delle “anime senza corpo”, ma con tutti i sentimenti che i sensi elargiscono, si intensifica nella sua mente. Un vago timore lo avvolge. E il timore si fa paura di perdere il suo spirito guida, a confronto dell’ombra lunga, sul far del mattino. Lunga e deci­sa è l’ombra proiettata dal corpo di Dante. E Virgilio? Niente ombra? Allora tutto è illusione? Sorridendo, il poeta latino ricorda, al poeta fioren­tino il suo passaggio nell’ “Oltre” nella città di Brindisi. Ricorda come la sua salma, per volere di Augusto, fu portata a Napoli. Ed è là che riposa, come ciò che ha compiuta la sua missione.

Ma allora Virgilio è uno spirito puro? Ma come fa uno spirito puro ad ospitar sentimenti che sono propri dei sensi? Sentimenti che tra poco Virgilio rivivrà, dopo tutto un discorso che vuol essere una vera rivelazione?

La rivelazione si manifesta, come un lampo, intorno al verso trentatre del “Terzo Canto”.

Qui si dice, esplicitamente, che l’anima non è mai “separata”; che l’anima ha sempre un corpo, ben diverso da quel che per natura si genera. Si gene­ra mortale. Invece il “corpo” misterioso che la “virtù dispone” accompagna l’anima al di là della morte. Nel cammino verso la vetta della Sacra Montagna quel corpo meraviglioso ha lo stesso carattere dei cieli “diafani” senza alcuna rozzezza di materia.

 

“Matto è chi spera che nostra ragione

possa trascorrer la infinita via...”

 

Il  Poeta sa d’aver detto una cosa “molto grossa” una cosa che doveva restare ignorata per lunghi secoli fino al giorno in cui ... Ecco, quel giorno è venuto!

 

“State contenti umane genti al quia

ché, se potete aveste veder tutto

mestier non era partorir Maria”

 

Per almeno sette secoli la ragione umana dove­va restare ai piedi di un’altra montagna: la monta­gna della conoscenza. Eppure il desiderio di sape­re il “perché” di misteri tanto alti e, pur tanto pros­simi da riguardarci da vicino, era stato il tormento e di Platone che pur scriverà cose mirabili sull’ani­ma; era stato l’assillo di Aristotele che con la sua “Metafisica” era riuscito a riconoscere nell’anima la “entelèkeja e pròte” cioè quella che sa ricon­giungere la fine al principio. E Virgilio? Sì anche Virgilio aveva vissuto quel tormento conoscitivo “e quì chinò la fronte e più non disse, e rimase tur­bato”. Turbato e, dunque, capace di sentimenti e di passioni.

Perché diciamo che, dopo sette secoli, la monta­gna del conoscere ci ha disvelato, parzialmente, ma significativamente, il mistero?

Perché abbiamo scoperto il “corpo tipo luce”. Fino al secolo scorso c’era la scienza che lo stu­diava nel nome dell’ “Ottica”. Era dunque l’occhio il punto di riferimento. E la luce non era che il “medium” perché l’occhio potesse vedere le cose.

Le cose cambiano nel momento in cui la luce non è più soltanto un “medium” per vedere. La luce è una “res” e una realtà vasta quanto il mondo. Il grande Maxwell ce ne ha parlato con le sue famose equazioni. Di più: tutto il mondo può essere realmente considerato come “luce”. Un altro grande, Albert Einstein, ci ha dato un’altra equa­zione che ci dice in quale altro modo possiamo vedere le cose. Se il ghiaccio lo possiamo vedere come acqua e come nuvola, la materia la possiamo vedere come corpuscolo o come onda. Corpuscolo = e corpo per gigante che sia = ci dà alla fine lo stesso risultato.

Ma su questo riprenderemo più avanti il discor­so.

Ora torniamo a Dante e riconosciamo in lui una buona guida per il cammino “oltre frontiera”. Non dimenticando tuttavia che il poeta, oltre alla intuizione, ha la immaginazione. Può dirsi di lui quello che è stato detto di un viaggiatore famoso, nei regni dell’aldiqua, Marco Polo. Il suo libro l’han chiamato “Il Milione”. Tante sono le cose mirabi­li.

Tante sono le cose mirabolanti. Allora attenzio­ne a non scambiare lucciole per lanterne.

A questo scopo, rimandiamo la lettura di Dante al Canto XXV ove il discorso in qualche modo risponde.

Questa volta si riprende sul tema del corpo tipo “massa”, ovvero corpo organico. E, più precisamente, si riprende “ab ovo”: come avviene la generazione?

Siamo nel primo pomeriggio, immaginato a specchio dell’aldiqua, e i due poeti hanno imboc­cato un sentiero molto stretto così da dover proce­dere in fila indiana. Dante ha una gran voglia di conoscere e,dal momento che si trova fra i monti, si paragona al piccolo della cicogna “che leva l’ala per voglia di volare, e non s’attenta d’abban­donar lo nido, e giù la cala”. Una voglia accesa e spenta che si riaccende quando Virgilio lo pro­voca dicendo: “Scocca l’arco del dir che insino al ferro hai tratto”. La freccia, il poeta , ce l’ave­va in testa. E se la prima volta il problema riguar­dava i sensi = come si può sentire se non c'è un corpo = ora il problema riguarda il corpo stesso. Come si può ingrassare o dimagrire se manca del tutto un rapporto a cominciare dalla fame?

Ora il discorso si avvia con le parole di un altro poeta della età romana: Stazio. S’avvia e si snoda attraverso intuizioni e conoscenze alterne. Una intuizione per davvero eccitante si ha nel momen­to in cui Stazio parla del sangue che prende “vir­tute informativa”. Veramente eccezionale! Tutta la genetica moderna si rifà alla “informazione” ed alla forza, ovvero alla “virtù informativa”. Ciò che invece ci colpisce è la velata allusione alla realtà sessuale “ov’è più bello tacer che dire”. E pensare alla spudoratezza dei nostri giorni e nel dire e nel fare e nel pensare!

Un altro passo significante è la dove si parla del­l’anima in senso attivo che a sua volta avrà come in corrispondenza un "medium" recettivo.

 Anima e corpo in unità perfetta, in prospettiva trascendente che porta il segno della immortalità. In un segno gerarchico per il quale non è il cervello il primo. Dio si rivolge lieto al nascituro = opera mirabile della natura = e vi infonde l’anima razionale che assume in sé tutte le forme precedenti: vive, sente ed ha coscienza di sé.

Come il calore del Sole congiunto al succo della vite diventa vino, così l’anima che s’irradiava nelle membra umane ora s’irradia nell’aria. Liberata dal suo proprio corpo l’anima spirituale ne porta con sé tutte le relative potenze. Anziché spegnersi negli organi relativi ne assume tutte le valenze.

Splendido il confronto con la natura: le nuvole dense di pioggia riflettono i raggi solari, si aprono nell’arcobaleno. Allo stesso modo l’aria assume la forma che l’anima, per la potenza informativa che essa conserva, fedelmente le imprime.

Altra felice immagine derivata dal fuoco: come la fiamma segue il fuoco, così il nuovo corpo aereo segue lo spirito.

Per il fatto che l’anima acquista forma visibile si dice “ombra”: in essa genera tutti i sensi, fino al senso più complesso com’è la vista.

 

“Secondo che ci affliggono i desiri

e gli altri affetti, l’ombra si figura

e questa è la ragion di che tu ammiri”

 

C’è un motivo di fondo che regge l’intero svolgi­mento del discorso di Dante: un motivo che deri­va, più o meno esplicito, dalla prima sorgente. Il testo biblico della “Genesi” definisce l’uomo come

“immagine di Dio”: una immagine virtuale che diverrà reale, attraverso il riscatto operato dal Cristo. Divenire conformi a Cristo = “conformes fieri” = questa è la originaria vocazione; questa la finale destinazione, per lo stretto coniugio della Grazia Divina e della libera scelta umana.

L’idea di conformità rimanda al concetto di “forma”. Duplice è la forma, a seconda che operi attivamente dal di dentro, oppure appaia visibile al di fuori.

L’uomo rozzo e inesperto confonde spesso e volentieri i due termini, fermo e attento com’è alle apparenze.

Nel gioco, acquista particolare rilievo la luce. E nella luce che vediamo e valutiamo le cose. A que­sto punto il valore si addice alle cose, anziché alla luce stessa. Ed è quì che caschiamo in inganno. E quì che parte la persuasione del valore dell’ombra nelle sue modulazioni e nelle sue configurazioni. Il vero assoluto valore vuole essere attribuito alla luce e alle sue modulazioni di frequenza. Nell’atto in cui giunge la luce dove mai finisce l’ombra? Dove mai finisce il buio?

Il discorso di Dante là dove egli parla di un corpo sottile e voluto dal Creatore, quasi veste del­l’anima = Veste nuziale diremmo in chiave evan­gelica = vuol essere letto e meditato alla luce di ciò che scrive Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi. Quasi esperto di musica e addirittura di fotonica l’Apostolo identifica la vita in un decre­scere ed in un crescere. Nell’atto in cui ciò che sta fuori dell’Uomo” deperisce secondo la legge di entropia, ciò che è al di dentro dell’Uomo cresce sintropicamente verso l’infinito. Vedi la casa di quaggiù che va lentamente franando. Vedi la casa di lassù che si va adornando con tutto l’amore di Cristo per ciò che saremo.

Altrettanto si dica del corpo umano lungo la linea dello spazio = tempo. La carne deperisce e invecchia. Ma ciò che sta di dentro rivela un suo “slancio vitale”.

Cos’è mai questa entità che sembra obbedire, alla modulazione musicale verso i toni più alti? Cos’è mai questa realtà che fa pensare alla luce nelle sue più alte frequenze?

Se si trattasse dell’anima separata, ovvero dello spirito umano immortale, il linguaggio proprio sarebbe quello della spoliazione. L’apostolo invece parla di vestito, di abito. Non già la spoliazione di tutto ciò che riguarda il creato, bensì la vestizione: la supervestizione in sintonia con la Grazia Divina.

Cosa sarà mai questo superabito che distingue l’essere umano dallo spirito qual’è l’Angelo e l’Arcangelo?

Prima di inoltrarci in un discorso moderno, indubbiamente eccitante ed ardito, poniamo atten­zione a ciò che dice Gesù di se stesso; “Io sono la Luce”. E = questo tema ricorrente della Luce che richiama l’attenzione verso l’alto, verso Colui che abita in una luce “inaccessibile”, richiama contem­poraneamente l’attenzione verso l’Uomo e la sua natura. “Voi siete la luce del mondo”.

E sempre Gesù che parla. Ora la domanda di fondo: la luce è soltanto una metafora?

Una metafora intesa a farci cogliere la realtà? Oppure = e quì si tratta di operare una rivoluzione = la luce è la realtà che dà senso e valore a ciò che diciamo il cui valore è per l’appunto una metafora? Per chi resta nell’orizzonte della Fede l’interrogativo rima­ne tale. Non più per chi si affaccia all’orizzonte della scienza moderna con particolare riguardo alla scienza ondulatoria che è in ultima analisi, la scien­za propria della luce.

Alla luce di tutto questo, abbreviando ogni discorso, potremmo dare una definizione della morte. La morte è l’epifania del “corpo di luce”. Dante ci darebbe la immagine della “angelica far­falla”. Ma, a parte il verme che sarebbe poi il “corpo mortale”, il tema delle ali è troppo legato al concetto dell’aria. La luce è ben altra cosa. E lo vedremo tra poco.

Nell’aria i suoni prendono il nome di “fononi” = Fonos = suono, voce, vibrazione per via di atomi e di molecole = Fuori dell’aria i dominatori assolu­ti sono i fotoni = Fos, fotos, fotografia, foto­gramma. Cos’è che vibra? Una volta si diceva l’ “etere”. Cos’è l’etere? Mancando una sua “definizio­ne operativa”, la scienza di occidente ha abbando­nata la parola e si è concentrata sul termine “foto­ne”. Lunghezza d’onda e frequenza definiscono il fotone. E più ancora la sua definizione è data dalla velocità: la velocità della luce per l’appunto. Ma attenzione! Quando diciamo “luce” ci riferiamo solo a un punto di partenza. Già la fisica, se di rado nomina i takioni, più frequentemente usa il termi­ne “superluce”.

La morte, come abbiamo detto, è una epifania, una specie di emersione dalla interiorità. Esempi comuni: il Sole che all’orizzonte emerge su dalla notte. La nota musicale che emerge dalla corda tesa vibrante. Il fiore che emerge dal suo genoma ov’è fin dall’inizio virtualmente presente. E sul piano religioso: Gesù che nasce dal seno di una Vergine. Cos’è mai la sua Risurrezione? Non è il risollevarsi del corpo ma è la “emersione” (il ter­mine è improprio) della Sua Entità di Luce e, que­sta, sulla Sua Entità di Purissimo Spirito e, questo, dalla Sua Divinità. Punto di partenza la Parola scandita dal Padre. Punto di arrivo: la risposta del Verbo e in Lui e per Lui di tutta la Creazione, secondo la vibrazione dello Spirito Santo.

Linguaggio, come si vede, imperfetto. Una sem­plice idea la cui risposta è un atto di Fede.

Ritorniamo ora alla morte come “epifania”.

Non ci fermiamo al di fuori = fainos, apparenza fenomeno = ma riprendiamo idealmente l’abbrivo dalla terza, dalla seconda e dalla prima sorgente. La prima sorgente è la parola creatrice del Verbo. Protologia? Ebbene passiamo alla Escatologia? Cos’è il Giudizio? È la nostra risposta alla fine del tempo. La seconda sorgente è la struttura fotonica che ci fa partecipi della Natura creata, dell’Universo. La terza sorgente è il “genoma”, ovvero codice genetico, da cui deriva il nostro essere “carne” e “sangue”.

Ora rivediamo le cose in senso inverso, rispetti­vamente in tre fasi. Prima fase: il fenomeno morte che lascia emergere (“epifania”) = come la corolla lascia emergere il genoma = il “Synolon” cioè l'uno - tutto - foton e logon - proprio della Natura Umana. La seconda fase rivela la “memoria attiva” dell’essere stata creatura nel tempo: memo­ria attiva che conserva per sempre, in forme via via purificate (vedi secondo Regno) della propria con­dizione creaturale. E, tutto questo, qualunque sia stato lo spessore dello spazio = tempo. Vedi gli Innocenti sacrificati sul nascere, durante il Tempo Natalizio di Gesù. La terza fase rappresenta l’unio­ne fondamentale con Cristo: Vero Uomo e Vero Dio. Un ritorno pertanto alla Sorgente, ciascuno con la propria identità, nella luce della libertà di scelta (detta impropriamente libero arbitrio) e nella Superluce della Grazia Divina.

La morte come “epifania” del nostro vero esse­re, in quella compiutezza, che risulta dal coniugio Grazia = Libertà. Coniugio d’Amore. Anzi Coniugio di un triplice atto di Amore. L’Amore di Colui che Gesù ci rivela come Padre. L’Amore del Figlio che ci assume come fratelli adottivi. L’Amore dello Spirito Santo che è l’Amore Assoluto. Colui che secondo la promessa di Gesù morente ci “rivela la Verità tutta intera”.

Nell’atto in cui pronunciamo la parola “Ecclesia” noi possiamo sentirci presenti e operanti sia local­mente che universalmente. Accolti ed avvolti in tre cerchi concentrici dalla periferia del Regno al “fuoco del fuoco”, cioè all’Enpireo. Se talora pos­siamo accontentarci di come noi siamo, chi ci sti­mola è la parola del Maestro: “Siate perfetti come il Padre”. E, dopo di Lui, l’Apostolo che ci invita ad ascendere la scala spirituale dei “carismi”: la Fede, la Speranza, la conoscenza, il servizio.

Ben consapevoli come siamo che il vertice di tutto è l’a­more. E, a sua volta, l’amore umano si svolge, se animato dallo Spirito, alla forma più alta. Si chiama “Agàpe”. Il suo vero senso ci viene suggerito dal Maestro, morente e risorgente: “Amatevi come vi ho amato Io”.